PAPA RATZINGER FORUM Forum, News, Immagini,Video e Curiosità sul nuovo Papa Benedetto XVI

L'occhio critico e obiettivo di Sandro Magister in chiesa.com

  • Messaggi
  • OFFLINE
    .samantha.
    Post: 54
    Registrato il: 27/06/2005
    Utente Junior
    00 15/07/2005 12:51
    I primi tre mesi di Benedetto XVI. Nuovo papa, nuovo stile
    L’intelligencija gli volta le spalle, ma i comuni fedeli no, lo apprezzano più del previsto. I segni iniziali d’un pontificato diverso: nella squadra, nei viaggi, nei rapporti con ebrei e ortodossi.
    di Sandro Magister




    ROMA, 15 luglio 2005 – Nei suoi primi tre mesi da papa, Benedetto XVI non è riuscito a conquistare la grande stampa italiana e internazionale, che continua a essergli in larga parte ostile.

    Anche tra gli intellettuali cattolici la tregua che il principe dei dissenzienti, Hans Küng, gli aveva concesso dopo l’elezione, pare scaduta.

    Dalle spiagge della California il gesuita Thomas Reese – che si dice defenestrato da direttore di “America” per volontà dell’ancora cardinale Joseph Ratzinger – ha liquidato il nuovo papa come irricuperabile nemico della modernità, ispirato dall’agostinismo più cupo. Per vederne le prove, Reese ha raccomandato la lettura di un saggio su “Commonweal” di Joseph A. Komonchak, prete dell'arcidiocesi di New York, professore alla Catholic University of America, Washington, D.C., nonché collaboratore di spicco della "Storia del Concilio Vaticano II" in cinque volumi diretta da Giuseppe Alberigo, la più letta nel mondo, ma oggetto di recenti critiche da parte del cardinale Camillo Ruini, vicario del papa.

    E in Italia il professor Achille Ardigò, guru della “scuola” di Bologna fondata da don Giuseppe Dossetti e presieduta da Alberigo, ha detto in un’intervista al quotidiano “la Repubblica”: “Prego ogni giorno lo Spirito Santo affinché induca il papa e il cardinal Ruini a non perseverare nella loro teologia razionalista”, una teologia che – a giudizio anche dello storico Pietro Scoppola in un’intervista ad “Avvenire” – si aggrappa al diritto naturale, butta tutto in politica ed “esclude il ruolo della trascendenza nell’agire umano”.

    Alberigo, in un’altra intervista a “la Repubblica”, ha ricordato che nel 1953, nella sua casa di Bologna, un monaco benedettino suo ospite, “pio e assai famoso”, invitava lui e la moglie a pregare per la morte di Pio XII – poi avvenuta nel 1958 – e spiegava: “Ora il Santo Padre è un peso per la Chiesa, preghiamo perché il Signore se lo prenda presto”.

    In compenso, però, Benedetto XVI sta catturando le folle.

    Le stesse masse di fedeli che di papa Karol Wojtyla applaudivano il gesto o la frase ad effetto, ma trascuravano quasi del tutto l’argomentare, col nuovo papa si comportano in modo opposto. Seguono le omelie pronunciate da Ratzinger parola per parola, dall’inizio alla fine, con un’attenzione che sbalordisce gli esperti. Per verificarlo, basta mescolarsi alle folle che assistono a una messa celebrata dal papa.

    Lo stile del nuovo papa è sobrio, a contatto con le masse. La sua espressività simbolica la attinge tutta dalle liturgie, che celebra con grande autorevolezza. Ma al di fuori delle messe, delle catechesi, delle benedizioni, Benedetto XVI è un minimalista. “Il papa non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza alla parola di Dio”, ha detto quando ha preso possesso della cattedrale di Roma, la basilica di San Giovanni in Laterano, il 7 maggio. E a questo criterio si attiene anche nella gestualità pubblica. Di suo fa pochissimo. Vuole che i fedeli guardino all’essenziale, che non è la sua persona ma Gesù Cristo vivo e presente nei sacramenti della Chiesa.

    Anche la vacanza la passa a suo modo. Non va per creste e rifugi, come l’atletico suo predecessore. Il 12 luglio s’è portato in montagna a Les Combes, in Valle d’Aosta, il pianoforte e tre valigie piene di libri. Perché le cose che gli stanno a cuore le scrive di suo pugno: le omelie, la prossima enciclica, più qualche discorso cruciale, come quello del 6 giugno a un convegno sulla famiglia che scatenò reazioni in tutto il mondo, in Italia applicato all’imminente referendum sulla procreazione assistita, in Spagna alla legge dei matrimoni gay e negli Stati Uniti alle dispute sull’omosessualità.

    Benedetto XVI ama scrivere a mano, in tedesco, con una calligrafia minuta, che sanno benissimo decifrare e trascrivere le sue due segretarie di concetto, Ingrid Stampa e Birgit Wansing, entrambe tedesche e appartenenti al movimento spirituale di Schönstatt, nato nel 1914 in un piccolo santuario mariano nella valle del Reno e oggi diffuso in ottanta paesi del mondo.

    Ingrid Stampa era la sua governante dal 1991, nell’appartamento di trecento metri quadrati che Ratzinger occupava in piazza della Città Leonina, nel Borgo a pochi passi dal Vaticano. Ora fa la spola tra lì e il Palazzo Apostolico, dove – col papa assente per tutta l’estate, prima in Valle d’Aosta e poi a Castel Gandolfo – sono cominciati i veri lavori di sistemazione dell’alloggio pontificio. Benedetto XVI possiede una biblioteca sterminata, ordinata con cura, che riveste le intere pareti dell’appartamento nel Borgo. E lì intende lasciarla, in buona parte.

    Anche Birgit Wansing non ha seguito il papa nella sua nuova residenza; continua come prima a lavorare alla congregazione per la dottrina della fede, dove Ratzinger è stato prefetto per 23 anni. Mentre Ingrid Stampa è stata integrata nella sezione tedesca della segreteria di stato.

    Nella sua dimora nel Palazzo Apostolico, invece, Benedetto XVI s’è portato Carmela e Loredana, appartenenti alle Memores Domini, il ramo religioso femminile di Comunione e Liberazione. Hanno i voti ma non sono vestite da suora. Curano la cucina, le pulizie, il guardaroba. La seconda ha lavorato in passato con il cardinale Angelo Scola, quando questi era rettore della Pontificia Università del Laterano. Altre due loro consorelle, Emanuela e Cristina, completeranno presto la squadra.

    Poi c’è il segretario personale del papa, come lui bavarese, Georg Gaenswein, 48 anni, prete della diocesi di Friburgo in Bresgovia. Insegnava fino a quest’anno alla Pontificia Università della Santa Croce, l’ateneo romano dell’Opus Dei, ed è segretario di Ratzinger da due anni.

    Tra lui e il celebre braccio destro di Giovanni Paolo II, Stanislaw Dziwisz, oggi arcivescovo di Cracovia, la diversità è forte. Sulle mille decisioni di governo ordinario della Chiesa che papa Karol Wojtyla trascurava, Dziwisz aveva un’importante voce in capitolo. E non c’era colazione o cena di lavoro del papa alla quale mancasse la presenza ingombrante del suo segretario.

    Con Benedetto XVI non è più così. Gaenswein compare meno e pesa di meno. A pranzo e a cena il nuovo papa non invita nessuno, come del resto non usava fare neanche in passato. Con gli ospiti discute a tu per tu, e le decisioni le matura di persona. La prima sorpresa è stata la nomina del suo successore a prefetto della congregazione per la dottrina della fede: l’americano William J. Levada era fuori da tutti i pronostici. Le future nomine in curia, a cominciare da quella del successore del segretario di stato Angelo Sodano, regaleranno probabilmente altre sorprese.

    Anche nella sala stampa vaticana è girato il vento. Joaquín Navarro-Valls è stato confermato direttore, ma con Benedetto XVI non ha più il rapporto diretto, osmotico, che aveva con Giovanni Paolo II. Non può più permettersi di modellare e amplificare gesti, frasi, performance del papa. Sa che il nuovo eletto vuole curare e dosare da solo, con molta parsimonia, la propria immagine e il proprio contatto col pubblico.

    A Navarro resta il rapporto con la segreteria di stato, dalla quale dipende per statuto. Ma in tre mesi ha già infilato due infortuni: il primo legato all’apparente smentita di una pre-indagine vaticana su accuse di abusi sessuali a carico del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel; il secondo relativo all’aggettivo “anticristiano” prima applicato all’atto terroristico di Londra del 7 luglio e poi cancellato. Nell’uno e nell’altro caso né l’ufficio stampa vaticano né la segreteria di stato hanno brillato per chiarezza comunicativa.

    Navarro era il factotum dei libri pubblicati da Karol Wojtyla quand’era papa. Con Benedetto XVI non è più così. Per dare alle stampe in Italia il suo primo libro da papa, “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”, Ratzinger ha fatto tutto da sé. Ha scelto lui personalmente l’editore, David Cantagalli, di Siena. Di un suo precedente libro presso lo stesso editore, “Fede, verità, tolleranza”, si è fatto stampare cento copie numerate, su carta di qualità, che ha regalato personalmente una per una.

    Meno fortunato Ratzinger è stato con l’editrice San Paolo, alla quale ha dato i diritti di stampare in Italia il nuovo “Compendio” del catechismo della Chiesa cattolica. Ne è uscito un volume d’aspetto mediocre, sia nei testi sia nelle figure. Eppure proprio le immagini, quattordici capolavori dell’arte sacra d’Occidente e d’Oriente, erano state volute e scelte personalmente da Ratzinger come parte integrante del catechismo medesimo.

    La valorizzazione della grande arte cristiana, del canto gregoriano e della musica sacra polifonica è un’altro elemento che distingue il nuovo papa dal predecessore. L’arcivescovo Piero Marini, il regista delle telecerimonie modernizzanti care a Giovanni Paolo II, è in attesa di essere trasferito ad altro incarico.

    Benedetto XVI ha già dato un taglio anche al numero altissimo di santi e beati proclamati da papa Wojtyla. I beati non li proclama più lui, ma li lascia in affido alle rispettive chiese locali, e sui nuovi santi ha tirato il freno.

    Un altro taglio drastico interessa i viaggi. I suoi saranno pochi e mirati. Un esempio l’ha dato con la prima sortita a Bari il 29 maggio: andata e ritorno in una mattina, solo per celebrare la messa. A Colonia, a metà agosto, si fermerà un poco di più. Ha in programma la visita alla sinagoga ebraica, la seconda di un papa dopo quella storica del 1986 di Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma. La cura del rapporto tra Chiesa ed ebraismo è un altro dato caratterizzante del nuovo papa, in piena continuità, su questo punto, col predecessore.

    Non meno deciso appare Benedetto XVI nel voler far pace con le Chiese ortodosse d’Oriente. Ha in comune con esse la centralità data alla liturgia eucaristica e il rispetto per la grande tradizione. Ma gli ostacoli sono grossi.

    Il 30 novembre, festa di sant’Andrea, Benedetto XVI andrebbe volentieri a Istanbul a incontrare il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, che l’ha invitato. Ma ha bisogno anche dell’invito della Turchia, che sa della contrarietà del nuovo papa a un suo ingresso nell’Unione Europea.

    Quanto a Mosca, ai ferri corti col precedente papa, Benedetto XVI ha mandato là in avanscoperta il cardinale Walter Kasper. Che tuttavia non è nemmeno riuscito a incontrare il patriarca Alessio II. Il punto più critico è l’Ucraina. Forte di oltre cinque milioni di fedeli, la Chiesa greco-cattolica ucraina vuole trasferire entro l’anno il suo quartier generale da Leopoli alla capitale Kiev, dove consacrerà in ottobre una nuova cattedrale metropolitana con autorità su quasi tutto il paese. Il patriarcato ortodosso di Mosca – che ha nell’Ucraina il suo maggior serbatoio di fedeli, di vocazioni e di soldi – vede in ciò un affronto intollerabile ed esige che Benedetto XVI lo impedisca.


    Sono sostanzialmente d'accordo con quanto scrive Magister. Aggiungo solo che la cosiddetta intelligencija, che aveva plaudito all'elezione del nostro Papa, ha cominciato ad attaccarlo quando ha capito che Benedetto XVI non sarebbe stato "buono e zitto" di fronte alle tematiche fondamentali quali famiglia, vita e pace nel mondo. Constato personalmente che e' in atto un riavvicinamento dei fedeli alla liturgia e alla catechesi della Chiesa cattolica.
    Ciao a tutti.
    Samantha

  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 1.967
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Veteran
    00 15/07/2005 16:00
    Quoto
    Quoto in tutto...e in più aggiungo: un papa di "transizione" come lo hanno chiamato, fu anche Giovanni XXIII, e come tutti sappiamo segnò il punto di rottura tral'allora chiesa tradizionale e e la Chiesa attuale...Più che altro ho quest'impressione(e parlo francamente senza peli sulla lingua) dove prima faceva comodo aver conoscenze a destra e a manca perchè chi comandava in Vaticano erano le cosiddette eminenze grigie...adesso conoscenze o meno contano poco, con un uomo che guarda allo Spirito invece che ad una calotta rossa in testa....
  • OFFLINE
    Lilandra Crystal
    Post: 6
    Registrato il: 25/03/2005
    Utente Junior
    00 15/07/2005 16:40

    Scritto da: Ratzigirl 15/07/2005 16.00
    Più che altro ho quest'impressione(e parlo francamente senza peli sulla lingua) dove prima faceva comodo aver conoscenze a destra e a manca perchè chi comandava in Vaticano erano le cosiddette eminenze grigie...adesso conoscenze o meno contano poco, con un uomo che guarda allo Spirito invece che ad una calotta rossa in testa....



    Prima? Prima di Ratzinger?
    Prima c'era Giovanni Paolo II... vuoi dire che GP2 tollerava l'uso delle "conoscenze"???? Non e' un po' offensivo questo modo di parlare nei confronti del vecchio papa?

  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 1.971
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Veteran
    00 15/07/2005 16:46
    No no
    Guarda Lilandra che sto parlando dopo aver letto articoli su articoli...su Repubblica, e l'ho pure postato in Benedetto XVI News sezione quel che è stato è stato, avevano messo su stampa un articolo "Chi comanda in Vaticano"....non sono io che offendo la memoria di Wojtyla...e non è un mistero per nessuno sapere quanto contasse la curia un tempo.Non sto offendendo Wojtyla che ha fatto moltissimo per gli uomini, sto constatando, (in maniera realistica, quindi cos' come piace a molti) che abbiamo un Papa che non si fa frenare dalla curia, come, probabilmente è stato costretto a fare Wojtyla specie negli ultimi tempi.
  • OFFLINE
    .samantha.
    Post: 57
    Registrato il: 27/06/2005
    Utente Junior
    00 15/07/2005 20:02
    Ciao
    Sono d'accordo con Ratzigirl.
    Nessuno offende GPII: ci mancherebbe!!! E' stato il grande Giovanni Paolo.
    Tuttavia e' sempre stato sotto gli occhi di tutti che Wojtyla privilegiava l'aspetto missionario del suo ministero petrino (cosa giustissima e lodevole), lasciando ad altri la gestione della curia. Fortunatamente c'era Ratzinger a dargli una grossa mano in questo senso senza smanie di protagonismo e sacrificando se stesso per il bene della Chiesa (gli attacchi contro di lui si sono sprecati negli anni...).
    GPII ha voluto andare in ogni parte del mondo (e' sua la frase: " vado io nei vari continenti perche' i poveri non viaggiano e non possono venire a Roma...), ha fatto benissimo perche' se non lo avesse fatto la Chiesa non sarebbe diventata cio' che e' ora (forte e GIOVANE!!!). Ora c'e' bisogno pero', a mio avviso, di un Papa che sistemi un po' la curia, faccia meno viaggi ma metta alcuni punti fermi nella liturgia e nel governo della Chiesa.
    Se vogliamo GPII era un Papa missionario, mentre Benedetto e' piu' Papa pastore, ma sono due lati della stessa medaglia ed ogni Pontefice e' figlio del suo tempo...
    Ciao
    Samantha

  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 2.014
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Veteran
    00 17/07/2005 03:37
    Un articolo critico di Sandro Magister
    Sabotaggio. Nel "Compendio" del catechismo Israele non c'è

    [SM=g27814] [SM=g27814] [SM=g27815] [SM=g27815] [SM=g27815] [SM=g27815]

    Benedetto XVI non ha fatto trapelare nessun suo commento. Ma quando ha visto stampato il "Compendio" del catechismo della Chiesa cattolica - a cui tiene moltissimo - è facile indovinare che sia rimasto deluso.

    In effetti, sono troppe le cose che non vanno.

    Prendiamo l'indice analitico. Uno, incuriosito, lo scorre e va a cercare la voce "ebrei". Trova due soli rimandi, seguiti da un "cf. Israele". Va a cercare la voce "Israele" e sobbalza. La voce non c'è.

    E poi. Oltre all'indice analitico, uno si aspetterebbe l'indice dei rimandi alla Bibbia. Che invece manca del tutto. Eppure il testo è pieno di citazioni di Gn, Sal, Ef, At, eccetera. Chi spiega ai catechizzandi che le sigle vogliono dire Genesi, Salmi, Lettera agli Efesini, Atti degli Apostoli, eccetera?

    E ancora. Il costo del libretto è salato: 9,50 euro per l'edizione piccola, 18,00 per quella di poco più grande. Troppi per un "libretto rosso" della Chiesa che dovrebbe andare in mano a un numero sterminato di persone e restare in diffusione non per anni ma per decenni.

    Il "Compendio" è un libro che è stato pensato dal papa attuale e dal predecessore per segnare un'epoca: uno di quelli da lanciare fin dall'inizio, nella sola Italia, in uno, due milioni di copie. Ma le edizioni San Paolo - cui è stata assegnata l'impresa - sono partite stampandone 50 mila. Una miseria.

    Per non dire della mediocrità dell'impaginato, dell'ineleganza stilistica, della carta che fa trasparire tutto sul retro, del maltrattamento delle illustrazioni, che pur sarebbero splendide (v. in www.chiesa: "Un catechismo per la civiltà dell'immagine").

    Insomma, un disastro. C'è da sperare che le edizioni in arrivo nelle altre lingue rimedino alla défaillance dell'edizione italiana. Che non la imitino, almeno
  • OFFLINE
    Sihaya.b16247
    Post: 502
    Registrato il: 15/06/2005
    Utente Senior
    00 18/07/2005 01:02
    Re: Un articolo critico di Sandro Magister
    Povero Papa Benedetto!!! [SM=g27825] L'edizione del Catechismo delle Paoline è stato una mezza fetecchia! A quanto pare lui non è per nulla soddisfatto della qualità dell'edizione, anche dal punto di vista della grafica: infatti, come dice l'articolo, aveva messo molta cura nello scegliere le immagini!!
  • OFFLINE
    elena66c
    Post: 4
    Registrato il: 14/07/2005
    Utente Junior
    00 18/07/2005 09:29

    solo 50mila copie?
    visto gli errori evidenziati c'e' da dire... e meno male!
    possono ancora riparare agli errori senza rimetterci troppi soldi e/o lamentele.
    D'altronde non e' un libro che passa di moda o non lo comperi piu' solo perche' non e' esteticamente perfetto..
    Se non c'e' il cifrario, Magister poteva anche prendere l'occasione e pubblicarlo direttamente oltre che criticarlo..cosi' faceva un servizio utile alla Chiesa.
    Questo iper-criticismo a volte e' irritante..scusate
    "Il mondo e' redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall'impazienza degli uomini" (Benedetto XVI - Messa Inizio Pontificato)
    “In ogni piccolo ma genuino atto di amore c’è tutto il senso dell’universo“: (Benedetto XVI - Angelus)
  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 2.515
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Veteran
    00 06/08/2005 17:07
    Da www.chiesa LO SCONTRO DELLE CIVILTA' : CHIARIMENTI
    Letture d’obbligo. Piccolo catechismo sullo scontro di civiltà
    Tutti ne discutono. Pochi sanno cos’è. In Vaticano fanno confusione. Pietro De Marco analizza il terrorismo islamico e la risposta cristiana alla luce della teoria di Huntington

    di Sandro Magister


    ROMA, 1 agosto 2005 – “Non c’è uno scontro di civiltà, sono solo piccoli gruppi di fanatici”, ha risposto Benedetto XVI lo scorso 20 luglio a un giornalista che gli chiedeva se col terrorismo islamico fosse in atto uno scontro di civiltà. Il papa era stato preso d’assalto dai giornalisti alla sua prima uscita pubblica dalla protetta solitudine del suo ritiro di montagna, a Les Combes di Introd, vicino al Monte Bianco, e questa fu una delle sue frammentarie risposte.

    Ma il 7 luglio, poche ore dopo gli attentati terroristici di Londra, in un’intervista trasmessa dai maggiori network televisivi, il cardinale segretario di stato Angelo Sodano si era espresso diversamente: “Faccio appello a tanti uomini di buona volontà che ci sono in tutte le religioni. Nel nome dello stesso Padre che è nei cieli dobbiamo terminare questo scontro di civiltà”.

    Quello stesso giorno, in una prima anticipazione alla stampa del telegramma di cordoglio per le vittime, la segreteria di stato vaticana aveva definito “atti anticristiani” gli attentati terroristici di Londra, con un’espressione poi modificata nel testo finale in “atti barbarici contro l’umanità”. I media avevano letto in questa modifica un dissidio ai vertici vaticani pro o contro la tesi dello “scontro di civiltà” tra islam e occidente cristiano.

    La domenica successiva, 10 luglio, il cardinale Sodano aveva difeso la giustezza della qualifica anticristiana data al terrorismo islamico come a qualunque atto terroristico. E il 23 luglio era tornato a ribadire che “il terrorismo va contro l’uomo, è antiumano, ma va anche contro la legge di Dio, quindi è anticristiano”.

    Il 25 luglio, tuttavia, di nuovo assalito dai giornalisti all’uscita dalla chiesetta di Introd, Benedetto XVI aveva risposto a chi gli chiedeva se le bombe dei terroristi si potessero definire anticristiane:

    “No, generalmente [la loro] mi sembra un’intenzione molto più generale, non proprio contro il cristianesimo”.

    E alla domanda se l’islam è una religione di pace:

    “Certamentre l’islam ha anche elementi che possono favorire la pace. Ha anche altri elementi. Dobbiamo cercare di trovare sempre i migliori elementi che aiutano”.


    * * *

    L’ultima sequenza di atti terroristici ad opera di musulmani ha reso di nuovo febbrile la discussione sulla più celebre teoria di geopolitica dell’ultimo decennio: quella formulata da Samuel P. Huntington (vedi foto) nel libro del 1996 “The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order” (pubblicato in Italia nel 2000 col titolo “Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”), e prima ancora nel suo saggio con lo stesso titolo apparso in “Foreign Affairs” dell’estate 1993, vol. 72, n. 3, pp. 22-49.

    Le autorità vaticane in genere evitano di usare la formula “scontro di civiltà”. E respingendo la formula non chiariscono se intendono anche negare la realtà da essa significata. La recensione dell’opera di Huntington pubblicata dalla semiufficiale rivista “La Civiltà Cattolica” nel quaderno del 16 ottobre 2004 è rimasta anch’essa nel vago. Né le scarne dichiarazioni strappate a Benedetto XVI nei giorni scorsi possono essere assunte al pari di tesi argomentate.

    In realtà, lo “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington – sia quando è esaltato, sia quando, più spesso, è deprecato – è anzitutto un grande incompreso. È più un’arma retorica che uno strumento di analisi.

    Assunta correttamente, la teoria di Huntington non legge come “scontro di civiltà” l’attacco portato dal terrorismo islamico. Questo però non significa che tale attacco, e il suo antagonismo col cristianesimo, siano da considerare di scarsa rilevanza o addirittura da negare.

    È ciò che argomenta Pietro De Marco, professore all’università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, esperto di geopolitica religiosa, nella nota che segue:


    Su terrorismo, sfida culturale e scontro di civiltà

    di Pietro De Marco


    “Ma, poi, perché combattere e rischiare? C’è forse una guerra? La mia risposta è sì, c’è una guerra, e credo che sia responsabile riconoscerlo e dirlo”. Così il presidente del senato italiano, il filosofo Marcello Pera, in un testo ormai celebre del maggio 2004, in dialogo a distanza con l’allora cardinale Joseph Ratzinger.

    E proseguiva: “In gran parte del mondo islamico e arabo, gruppi consistenti di fondamentalisti, radicali, estremisti […] hanno dichiarato una guerra santa all’occidente […]. Perché non prenderne atto?”.

    Contemporaneamente, nel dibattito italiano ed internazionale sul terrorismo, molti obiettano che non vi è alcuna sfida anticristiana e che l’occidente, come civiltà, non è l’obiettivo di alcuna guerra. Sintomaticamente, in questi giorni, le opposte posizioni cercano di avvalersi dei giudizi di Benedetto XVI e ad un tempo, possibilmente, di influenzarli.

    Eppure, specialmente nei paesi che sono stati toccati dagli attentati recenti, si coglie un ritorno dell’espressione “clash of civilizations”, collisione o scontro di civiltà. La domanda essenziale di opinionisti e forze politiche appare questa: il fenomeno terroristico alqaedista è o non è l’espressione armata che rivela la realtà e serietà dello scontro – della guerra – in corso tra civiltà islamica e civiltà occidentale-cristiana? Domanda drammatica, cui si deve tentare di rispondere con rigore.

    Lo scontro di civiltà non è un’opinione. Il giudizio sull’opportunità di adottare pubblicamente questa formula è, certamente, lasciato alla libertà o ai vincoli del soggetto che comunica. Ma in una sede autonomamente valutativa affermare o negare il fenomeno dipenderà da un disciplinato uso dei termini. Questo uso è e deve restare strettamente legato alla definizione data da Samuel P. Huntington. Introdurre definizioni difformi accresce solo il disordine comunicativo, e rende impossibile dirimere con qualche successo le divergenze di giudizio.

    La fenomenologia terroristica appartiene ai sintomi del “clash” huntingtoniano? La proiezione indubitabilmente ed esplicitamente anticristiana di voci intellettuali e politiche islamiche è “clash” civilizzazionale in atto, in senso proprio? L’affermazione di reciproca incompatibilità tra visioni del mondo, prodotta da ceti intellettuali, è la sanzione di un “clash”?

    In termini rigorosamente huntingtoniani la risposta è no.

    Questo equivale, allora, ad affermare che la componente antioccidentale delle avanguardie islamiche è fenomeno solo di superficie? O che il terrorismo è fenomeno senza strategia mondiale, quindi senza profilo civilizzazionale e con moventi nel disagio politico ed economico delle masse musulmane? O che l’antagonismo col cristianesimo su scala universale, talora esibito dalla intelligencija islamica, sia da considerare di scarsa rilevanza?

    Anche in questo caso la risposta è no.

    Abbiamo una prima avvertenza di metodo, allora, che formulerei così: non è necessario connotare un esplicito conflitto di culture come “clash” civilizzazionale per riconoscerne l’estrema gravità su scala mondiale. La contrapposizione costante, nel dibattito, tra la densità dell’allarme condotto dai fautori del “clash”, da un lato, e la banalizzazione dei fenomeni in atto da parte dei negatori del “clash”, dall’altro, indica come il richiamo alla formula di Huntington abbia spesso solo una funzione retorica.


    1. Cosa significa scontro di civiltà.


    Il ricorso alla categoria di “civilization” non significa che, per Huntington, il terreno delle collisioni tra forze mondiali abbia qualsiasi forma e si localizzi ovunque, quasi una realtà “liquida”, alla Zygmunt Baumann.

    Tutt’altro. Significa realisticamente che sul terreno di scontro di sempre per le egemonie politiche ed economiche, per il controllo di popoli e continenti, si scende ormai con ragioni e orizzonti che attingono alle radici identitarie di grandi soggetti, e alla loro affermazione su scala universale.

    Gli enormi aggregati che Huntington chiama civiltà, sono comunanze – “commonalities” – di appartenenze, identità e obiettivi che si ridefiniscono e saldano su scala mondiale.

    Nelle “civilizations” le nazioni si riconoscono parenti e si gerarchizzano al livello dei continenti e oltre, con effetti che sono sotto i nostri occhi:

    "Nel mondo del post-Guerra Fredda la cultura è una forza ad un tempo disgregante e aggregante. [Certo] le culture possono cambiare […]. Non v'è dubbio, tuttavia, che le differenze più profonde nello sviluppo politico ed economico delle varie civiltà siano radicate nelle loro diverse culture […]. Le affinità e le differenze culturali determinano gli interessi, gli antagonismi e le associazioni tra stati. […] La politica globale è divenuta multipolare e multi-civiltà".

    Le guerre di faglia che sono i fenomeni sitomatici del “clash” civilizzazionale (non si dimentichi che Huntington è uno studioso di relazioni internazionali) sono veri conflitti armati. La metafora compare in Huntington immediatamente in apertura del suo saggio del 1993:

    "Le grandi divisioni dell'umanità e la scaturigine prevalente dei conflitti saranno culturali [e non, anzitutto, economiche o ideologiche]. […] La collisione tra civiltà dominerà la politica globale. Le zone di faglia tra civiltà – ‘fault lines of civilizations’ – saranno i fronti di guerra del futuro".

    Una “fault line war” è stata la complessa guerra balcanica. Una “fault line war” potrebbe essere un confronto armato tra USA e Cina sul fronte di Taiwan, o tra India e Cina per un’egemonia asiatica.

    Huntington ha riproposto alla nostra attenzione ciò che la duplice teoria della storia, liberale e materialistico-rivoluzionaria, di matrice secolarizzante aveva ritenuto di escludere dalla modernità: origini storiche e religiose, coraggio e dignità di appartenenza, sfide universalistiche di verità. In questo, la sua è stata una mossa teorica semplice ma disturbante, come ogni mossa teorica di genio.

    Un attore meramente ideologico e nichilistico come Al Qai’da non è quindi un vero soggetto civilizzazionale. Parti vitali di una “civilization” sono gli stati (con confini, capacità coattiva, eserciti) e le ragioni di stato (che sono tali anche quando incorpora valori). Al Qai’da, nella sua stessa formula e genesi teologica, come nella sua organizzazione e diramazione, è indipendente dalla ragione di stato (anche se è strumentalizzabile da singoli stati), ed è per certi aspetti antagonistica ad essa. D’altronde, modernizzazioni e indigenizzazioni sono poco compatibili col purismo di una battaglia radicale.

    Paradossalmente, la coperta neutralità nei confronti del terrorismo di parte dei paesi musulmani, se si configurasse come una macro-aggregazione passiva ostile all’Occidente nell’attesa degli effetti dell’assalto alqaedista, sarebbe una figura più coerente con lo scontro civilizzazionale prospettato da Huntington.


    2. La natura della sfida e la risposta occidentale-cristiana.


    Riferito al terrorismo, il richiamo al “clash of civilizations” è dunque fuori dal paradigma Huntington. La figura del terrorismo suicida è figura apocalittica, i cui obiettivi sono per certi aspetti metastorici. Morire e far morire per la causa corrisponde a un modello gnostico-emancipatorio. Non è scontro di civiltà, perché non è in corso uno scontro huntingtoniano sotto l’aspetto strutturale, che è in definitiva sempre reale collisione di eserciti, anche se guidati da ragioni culturali.

    L’affermazione, ripetuta, che il terrorismo sarebbe la nuova modalità della guerra è erronea (e sorge spesso da un atteggiamento di comprensione nei confronti delle pratiche terroristiche di combattimento), come ogni studioso rigoroso di relazioni internazionali può argomentare. Il nuovo ordine iracheno è stato costruito con una vera guerra. E non sarà demolito dal terrorismo, mentre, per assurdo, potrebbe essere annullato dall’intervento di un’armata più forte di quella americana.

    Ma se la sfida terroristica in corso non è un vero scontro di civiltà, è per questo depotenziata, e cessa di essere sfida all’occidente e al cristianesimo? No, anzi. La sfida alqaedista, nel suo purismo generatore di vocazioni al martirio, è sfida settaria alla totalità delle occidentalizzazioni, lette anche sotto il segno di un universalismo cristiano pervasivo.

    Come tutte le strategie terroristiche essa mira ad un duplice risultato, intimamente contraddittorio, ma da cui pensa comunque di trarre vantaggio. Piegare l’avversario, oppure indurirlo. Piegarlo, nell’ipotesi che esso poggi su un ordine sempre prossimo al collasso, secondo il modello del collasso delle Twin Towers. Oppure indurirlo, ad esempio in termini di ordine pubblico, provocando al suo interno conflittualità e rivolte.

    Si tratta, com’è sempre avvenuto, di attese perdenti, perché dipendenti da letture ideologico-moralistiche della realtà. Nessuna società ha la elementare struttura ingegneristica delle Torri Gemelle. Tanto meno nessuna società si dissolve dall’interno se chiamata a serrare i ranghi per difendersi.

    La componente anticristiana della sfida, al di là delle formule da propaganda popolare sui “crociati”, è nella sfida alla capacità cristiana di reggere al confronto. Confronto morale, a questo punto, e di nervi ma, infine, di razionalità. Diversamente da uno scontro tra blocchi civilizzazionali, la penetrazione estremista conta di impadronirsi della nostra anima, con la paura. Hanno dunque ragione coloro che si richiamano alla cultura e razionalità cristiana come alle fonti della nostra capacità di diagnosi e resistenza.

    Ma resta affrettata l’apologia di noi stessi di fronte al terrorismo che ci colpisce, come è affrettata l’atttribuzione al terrorismo alqaedista della rappresentanza di una intera civiltà huntingtoniana in guerra con l’occidente.


    3. Tra Huntington e Fukuyama: un nesso sintomatico.


    Fin dal primo apparire delle sue tesi si obiettò a Huntington che il "vero" scontro di civiltà (in una accezione subito non collimante con la sua) sarebbe stato non tra le culture comdiali ma dentro di esse. Con questa obiezione di timbro illuministico si intendeva svuotare la novità di Huntington e, ad un tempo, riproporre un’immagine del mondo, dopo il 1989, tollerabile per le ideologie evoluzionistiche o moralistiche della storia, per le quali gli scontri sono degni di attenzione solo se “progressivi” ed emancipatori.

    In realtà, la constatazione di profonde collisioni culturali – di “Weltanschauung” – interne a una civiltà-continente non è un correttivo, tanto meno una confutazione della tesi di Huntington. Essa segnala altra cosa. Il confronto entro la cultura occidentale sulle frontiere della biogenetica, per quanto lacerante come si usa dire, non è un conflitto o una collisione tra civiltà in senso huntingtoniano. Gli scontri tra le civiltà e al loro interno possono benissimo coesistere, restando inconfondibili.

    Così come coesistono e non sono in opposizione – nonostante quanto ripete automaticamente l’eloquio colto – le prospettive di Huntington e il Francis Fukuyama di “La fine della storia e l’ultimo uomo”. Nel giro di pochi anni Huntington ha còlto il ritorno su grande scala di quella dimensione timotica (dal greco thymós, animo, ira, capacità e volontà di affermazione e sfida) che Fukuyama aveva ampiamente tematizzato, ma non previsto capace di opporsi al destino della "fine della storia".

    La fine della storia è l'annichilimento dell'uomo in un appagamento finale, in una estasi senza più affermatività e riconoscimento di sé. È la tesi che Fukuyama ricavava da Hegel attraverso un grande filosofo del Novecento, Aléxandre Kojève. In un celebre testo del 1968 Kojève aveva annotato che quella condizione terminale è per l’uomo un restare in vita come animale: un "animale che è in armonia con la natura o l'essere dato" e che eventualmente si oppone a sé e all'altro come mera forma, indifferente ai contenuti.

    Fukuyama e Huntington dunque convergono in una “discordia concors”. È vero infatti che sul versante del confronto tra le civiltà la spinta affermativa di sé porta conflitti e distruzioni. Ma è anche vero al tempo stesso che “l'ultimo uomo” incombe sul versante della mutazione intima del mondo che si occidentalizza. Profezia che rischia di avverarsi per l’occidente proprio nel pieno del “clash” culturale e identitario.

    Da cosa dipendono, infatti, tanto l’affermazione quanto la negazione affrettate dello scontro di civiltà? Appunto, da una indebita riduzione, nel dibattito pubblico, del concetto di civiltà a quello di cultura come sistema di idee o costumi.

    Così, quello che in Huntington è confronto totale di eserciti e di economie, di tecnologie e capacità di mobilitazione di masse o di aggregazione di etnie su scala continentale, nella nostra discussione si riduce allo scontro sugli stili di vita.

    Si noti che quest’ultimo terreno di scontro è comune sia a coloro che suonano l’allarme sulla sfida alla civiltà occidentale-cristiana sia a coloro che denunciano l’attacco ai nostri valori illuminisitico-democratici.

    Il bersaglio della campagna terroristica, si è scritto, siamo noi e i nostri gesti quotidiani nella loro libertà e casualità: “prendere l’autobus o il metro, far l’amore o non farlo, divertirsi o no, sentirsi liberi nei movimenti". Contro questa sfida e i suoi effetti sulle nostre vite qualcuno richiama il Salman Rushdie del dopo 11 settembre, il quale scrisse sul “Guardian” che la risposta sarebbe stata la continuità col prima: il baciarsi in luoghi pubblici, la moda ultimo grido, la generosità, la musica, la bellezza, la libertà di pensiero.

    La sfida terroristica ha sempre avuto queste caratteristiche: colpire i gangli della vita quotidiana, come tale. Ma proprio per questo essa è intrinsecamente trans-civilizzazionale. Il terrorismo che colpisce Baghdad non ha obiettivamente gli effetti culturali di quello di Londra o Sharm el-Sheikh. Lo stile di vita attuale in Iraq né, tanto meno, quello prima della guerra sono londinesi.


    4. Tre rilievi finali.


    Il primo. È sintomatico che si faccia coincidere la nozione di civiltà con uno stile di vita consacrato dalle libertà, specie quelle rivolte a tutelare l'individuo come tale. Su questo punto la è mia opinione è drastica: né la grande tradizione liberale dello stato etico né la cultura politica cristiana debbono temere dalla necessità, eventualmente indotta dall’attacco terroristico, di limitare alcuni spazi di libertà.

    L’esperienza dello “stato d’eccezione”, la lunga tradizione di guerre tra stati, ha educato l’occidente a chiudere e riaprire, secondo necessità, aree di diritti che debbano essere contingentemente limitate. Il lamento su questo terreno è solo un sintomo di fragilità, poiché la nostra forza consiste proprio nella certezza di poter riattivare ciò che viene contingentemente sospeso. In altri termini, se il terreno della sfida di civiltà fosse questo, la guerra sarebbe vinta da quella ragione dell’occidente che sa di poter stringere i ranghi, non senza costi ma senza regredire.

    Il secondo. Che i terroristi vogliano colpirci nelle nostre libertà per costringerci ad essere come loro, è un sospetto che ci lusinga. Ma come pensare seriamente che un’azione terroristica, che trae vantaggio proprio dalla esasperata tutela delle libertà e dalle maglie larghissime dell’ordine democratico, abbia come fine renderle più anguste?

    La tensione apocalittico-negativa che accompagna il terrorista suicida non deve essere confusa con la strategia del suo mandante. Il terrorismo induce terrore; il terrore è perdita di energia, è crollo di difese e di lucidità di decisione; nel terrore si è alla mercè dell’altro. Chi pianifica il terrore conta sulla nostra fragilità morale e incapacità di tollerare il dolore e il vincolo, non meno che sulle difficoltà operative di replicare con efficacia all’aggressione. Ci teme perentori. Anche se paventa il nostro contagio, ci preferisce libertari e edonisti. Conta su quei capricci per cui ci disprezza, e spera nei loro apologeti. Se sbaglia è solo perché il cuore dell’occidente non è questo.

    Il terzo. La paura per lo scontro di civiltà come attacco al nostro stile di vita contiene una illusione peggiore, che arma ideologicamente l’avversario. Che la nostra vita, nella sua varietà e casualità, sia una potente difesa e un’arma modernizzatrice efficace, lo si ripete in questi giorni, e non è falso. Ma, come strategia di confronto e di resistenza, equivale ad affidarsi al caso, ovvero sperare che gli “altri” si indeboliscano per effetto di una corruzione indotta da noi, per contagio.

    Contare che il confronto di culture corrompa l’ethos dell’altro al fine di inibirne la violenza antagonista è un errore non solo etico ma di ragion politica. Per due motivi, almeno.

    Anzitutto perché l’altro, che ne è consapevole, rinforza antagonisticamente la propria coerenza e tenuta interna, si ricostruisce in una simmetrica impermeabilità al contatto.

    Inoltre, perché tale calcolo produce in noi un cortocircuito diagnostico insensato. È il controllo “teocratico” del costume e della libertà di pensiero (controllo non così sconosciuto all’occidente) a generare il terrorismo? Ovviamente no. Anche perché il terrorismo ha una sua cultura politica propria, di matrice e di modello europeo, anarco-rivoluzionario. Un buon paradosso.

    __________
  • Nikki72
    00 06/08/2005 19:46
    Re: No no


    Scritto da: Ratzigirl 15/07/2005 16.46
    Guarda Lilandra che sto parlando dopo aver letto articoli su articoli...su Repubblica, e l'ho pure postato in Benedetto XVI News sezione quel che è stato è stato, avevano messo su stampa un articolo "Chi comanda in Vaticano"....non sono io che offendo la memoria di Wojtyla...e non è un mistero per nessuno sapere quanto contasse la curia un tempo.Non sto offendendo Wojtyla che ha fatto moltissimo per gli uomini, sto constatando, (in maniera realistica, quindi cos' come piace a molti) che abbiamo un Papa che non si fa frenare dalla curia, come, probabilmente è stato costretto a fare Wojtyla specie negli ultimi tempi.




    E poi non è un mistero che negli ultimi anni GP2 (causa salute) non governasse più molto la Chiesa e alcuni esponenti della curia avevano un potere enorme, anche Ratzi.
  • Nikki72
    00 06/08/2005 19:52
    Re: Re: Un articolo critico di Sandro Magister


    Scritto da: Sihaya.b16247 18/07/2005 1.02
    Povero Papa Benedetto!!! [SM=g27825] L'edizione del Catechismo delle Paoline è stato una mezza fetecchia! A quanto pare lui non è per nulla soddisfatto della qualità dell'edizione, anche dal punto di vista della grafica: infatti, come dice l'articolo, aveva messo molta cura nello scegliere le immagini!!




    Ma non si possono fare certi errori!!! Un libro del genere è importante, perché non hanno avuto nessuna cura per stamparlo??? ma dico, neanche controllare le voci, l'impaginazione, la carta??? alle Paoline son ridotti così male, che non possono permettersi gente che controlla prima di dare alle stampe un libro? scusate ma sono incavolata per questa cosa! Fossi nel Papa cambierei casa editrice e lo farei ristampare altrove, magari dalla Piemme! alle Paoline son troppo sparagnini, mi pare! [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826]




  • OFFLINE
    Sihaya.b16247
    Post: 754
    Registrato il: 15/06/2005
    Utente Senior
    00 07/08/2005 17:51
    Da www.chiesa IL PAPA SI CONFESSA
    Il papa si confessa. Con i sacerdoti di una piccola diocesi di montagna
    Il sorprendente botta e risposta di Benedetto XVI con i preti di Aosta. Sull’Occidente stanco di Dio, sul cristianesimo in Africa, sulle parrocchie senza prete, sulla comunione ai divorziati risposati...

    di Sandro Magister



    ROMA, 29 luglio 2005 – Dei discorsi fin qui tenuti da Benedetto XVI, ce n’è uno tutto speciale. Il papa non l’ha scritto, l’ha improvvisato parlando a braccio. L’ha pronunciato a porte chiuse durante la sua vacanza sulle Alpi, nella piccola chiesa di Introd, con davanti il vescovo e i preti della diocesi di Aosta. Non è stato diffuso dalla sala stampa vaticana, ma è comparso due giorni dopo, il 27 luglio, su “L’Osservatore Romano” e sul sito web della Santa Sede, solo in lingua italiana, trascritto alla lettera dal nastro registrato.

    L’interesse di questo discorso è grande, perché consente di cogliere dal vivo alcune delle questioni che stanno più a cuore a Joseph Ratzinger. Quelle su cui le riflessioni gli escono spontanee. Quelle su cui la sua visione è chiara, a tratti sorprendente, e quelle su cui confessa di non avere una risposta definita.

    Eccone qui di seguito alcuni passaggi.

    Sulle tante vocazioni al sacerdozio in Africa, non tutte però buone:

    “Ho avuto, nelle ultime settimane, le visite ‘ad limina’ dei vescovi dello Sri Lanka e della parte Sud dell'Africa. Qui crescono le vocazioni, anzi sono così tante che non possono costruire sufficienti seminari per accogliere questi giovani che vogliono farsi sacerdoti.

    “Naturalmente anche questa gioia porta con sé una certa amarezza perché una parte almeno viene nella speranza di una promozione sociale. Facendosi sacerdoti diventano quasi capi della tribù, sono naturalmente privilegiati, hanno un'altra forma di vita, eccetera. Quindi zizzania e grano vanno insieme in questa bella crescita delle vocazioni e i vescovi devono essere molto attenti nel discernimento e non essere semplicemente contenti di avere molti sacerdoti futuri, ma vedere quali sono realmente le vere vocazioni, discernere tra zizzania e buon grano”.

    Ancora sull’Africa, sull’espansione del cristianesimo ma anche dell’islam e delle sette:

    “C'è un certo entusiasmo della fede perché stanno in un'ora determinata della storia, cioè nell'ora nella quale le religioni tradizionali ovviamente si rivelano non più sufficienti. E si capisce, si vede, che queste religioni tradizionali portano in sé una promessa, ma aspettano qualcosa. Aspettano una nuova risposta che purifica e, diciamo, assume in sé tutto il bello e libera tali aspetti insufficienti e negativi. In questo momento di passaggio dove realmente la loro cultura si protende verso un'ora nuova della storia, le due offerte – cristianesimo e islam – sono le possibili risposte storiche.

    “Perciò in quei paesi c'è, in un certo senso, una primavera della fede, ma naturalmente nel contesto della concorrenza tra queste due risposte, soprattutto anche nel contesto della sofferenza delle sette, che si presentano come la risposta cristiana migliore, più facile, più accomodante. Quindi anche così in una storia di promessa, in un momento di primavera, rimane difficile l'impegno di quello che deve con Cristo seminare la Parola e, diciamo, costruire la Chiesa”.

    Sulle Chiese “morenti” del mondo occidentale:

    “Si vede che le cosiddette grandi Chiese appaiono morenti. Così in Australia, soprattutto, anche in Europa, non tanto negli Stati Uniti. Crescono, invece, le sette che si presentano con la certezza di un minimo di fede, e l'uomo cerca certezze. E quindi le grandi Chiese, soprattutto le grandi Chiese tradizionali protestanti, si trovano realmente in una crisi profondissima. Le sette hanno il sopravvento perché appaiono con certezze semplici, poche, e dicono: questo è sufficiente. La Chiesa cattolica non sta così male come le grandi Chiese protestanti storiche, ma condivide naturalmente il problema del nostro momento storico”

    Su come reagire all’offuscamento della fede cristiana in Occidente:

    “La prima risposta è la pazienza, nella certezza che senza Dio il mondo non può vivere, il Dio della Rivelazione – e non qualunque Dio: vediamo come può essere pericoloso un Dio crudele, un Dio non vero – il Dio che ha mostrato in Gesù Cristo il suo volto. Questo volto che ha sofferto per noi, questo volto di amore che trasforma il mondo nel modo del chicco di grano caduto in terra”.

    Su come far rifiorire anche in Occidente le vocazioni al sacerdozio:

    “La certezza che Cristo è realmente il volto di Dio [...] esige questa personalizzazione della nostra fede, della nostra amicizia col Signore, e così crescono anche nuove vocazioni. Lo vediamo nella nuova generazione dopo la grande crisi della lotta culturale scatenata nel '68, dove realmente sembrava passata l'era storica del cristianesimo. Vediamo che le promesse del '68 non tengono e rinasce, diciamo, la consapevolezza che c'è un altro modo, più complesso perché esige queste trasformazioni del nostro cuore, ma più vero, e così nascono anche nuove vocazioni. E noi stessi dobbiamo anche trovare la fantasia per come aiutare i giovani a trovare questa strada anche per il futuro. Anche questo nel dialogo con i vescovi africani era evidente. Nonostante il numero di sacerdoti molti sono condannati ad una solitudine terribile e moralmente molti non sopravvivono.

    “E, dunque, è importante avere intorno a sé la realtà del presbiterio, della comunità di sacerdoti che si aiutano, che stanno insieme in un cammino comune, in una solidarietà nella fede comune. Anche questo mi sembra importante perché se i giovani vedono sacerdoti molto isolati, tristi, stanchi, pensano: se questo è il mio futuro allora non ce la faccio. Si deve creare realmente questa comunione di vita che dimostra ai giovani: sì, questo può essere un futuro anche per me, così si può vivere”.

    Sul distacco di tante persone dalla Chiesa:

    “È vero: alla gente, soprattutto ai responsabili del mondo, la Chiesa appare una cosa antiquata, le nostre proposte non necessarie. Si comportano come se potessero, volessero vivere senza la nostra parola e sempre pensano di non aver bisogno di noi. Non cercano la nostra parola. Questo è vero e ci fa soffrire, ma fa anche parte di questa situazione storica, di una certa visione antropologica, secondo la quale l'uomo deve fare le cose come Karl Marx aveva detto: la Chiesa ha avuto 1800 anni per mostrare che avrebbe cambiato il mondo e non ha fatto niente, adesso lo facciamo noi da soli”.

    Su come riavvicinare alla Chiesa i lontani, come uccelli sull’albero di senape:

    “Solo i valori morali e le convinzioni forti danno la possibilità anche con sacrifici di vivere e di costruire il mondo. [...] Solo l’amore ci fa vivere e l’amore è anche sofferenza. [...] Anche qui, naturalmente, abbiamo bisogno di pazienza, ma anche di una pazienza attiva nel senso di far capire alla gente: avete bisogno di questo. E anche se non si convertono subito, almeno si avvicinano al cerchio di coloro che, nella Chiesa, hanno questa forza interiore. La Chiesa sempre ha conosciuto questo gruppo forte interiormente che porta realmente la forza della fede, e persone che quasi si attaccano e si lasciano portare e così partecipano. Io penso alla parabola del Signore circa il grano di senape così piccolo che poi diventa un albero così grande che anche gli uccelli del cielo vi trovano posto. E direi che questi uccelli possono essere le persone che non si convertono ancora, ma almeno si posano sull'albero della Chiesa”.

    Sulla proposta ai non credenti di vivere “come se Dio ci fosse”:

    “Ho fatto questa riflessione: nel tempo dell'illuminismo, l'ora dove la fede era divisa tra cattolici e protestanti, si pensò che occorresse conservare i valori morali comuni dando loro un fondamento sufficiente. Si pensò: dobbiamo rendere i valori morali indipendenti dalle confessioni religiose, così che essi reggano ‘etsi Deus non daretur’ [anche se Dio non ci fosse].

    “Oggi siamo nella situazione contraria, si è invertita la situazione. Non c'è più evidenza per i valori morali. Diventano evidenti solo se Dio esiste. Io pertanto ho suggerito che i laici, i cosiddetti laici, dovrebbero riflettere se per loro non valga oggi il contrario: dobbiamo vivere ‘quasi Deus daretur’ [come se Dio ci fosse]. Anche se non abbiamo la forza di credere, dobbiamo vivere su questa ipotesi, altrimenti il mondo non funziona. E sarebbe questo, mi sembra, un primo passo per avvicinarsi alla fede. E vedo in tanti contatti che, grazie a Dio, cresce il dialogo con almeno parte del laicismo”.

    Sulle parrocchie rimaste senza prete, in Germania e in Francia, e sui rischi di “protestantizzazione”:

    “Quando io sono stato arcivescovo di Monaco avevano creato questo modello di funzioni: solo della Parola senza sacerdote per, diciamo, tenere la comunità presente nella propria chiesa. E hanno detto: ogni comunità rimane, e dove non c'è sacerdote facciamo questa liturgia della Parola.

    “I francesi hanno trovato la parola adatta a queste assemblee domenicali ‘en absence du prêtre’ [in assenza del prete], ma dopo un certo tempo hanno capito che questo può andare anche male, perché si perde il senso del sacramento, c'è una protestantizzazione e, alla fine, se c'è solo la Parola posso celebrarla anch'io a casa mia. Ricordo quando ero professore a Tubinga, il grande esegeta Käsemann, non so se conoscete il nome, allievo di Bultmann, che era un grande teologo. Anche se protestante convinto, non è mai andato in chiesa. Diceva: io posso anche a casa meditare le Sacre Scritture.

    “I francesi hanno un po' trasformato la formula assemblee domenicali ‘en absence du prêtre’ nella formula assemblee domenicali ‘en attente du prêtre’ [in attesa del prete]. Cioè, deve essere una attesa del sacerdote, e direi: normalmente la liturgia della Parola dovrebbe essere un'eccezione di domenica, perché il Signore vuole venire corporalmente. Questa perciò non deve essere la soluzione”.

    Sull’importanza di andare alla messa domenicale, anche se dista chilometri:

    “Si è creata la domenica, perché il Signore è risorto ed è entrato nella comunità degli apostoli per essere con loro. E così hanno anche capito che non è più il sabato il giorno liturgico, ma la domenica nella quale sempre di nuovo il Signore vuole essere corporalmente con noi e nutrirci del suo corpo, perché diventiamo noi stessi il suo corpo nel mondo.

    “Trovare il modo per offrire a molte persone di buona volontà questa possibilità: adesso non oso dare ricette. A Monaco ho sempre detto – ma non so la situazione qui che è certamente un po' diversa – che la nostra popolazione è incredibilmente mobile, flessibile. I giovani fanno cinquanta e più chilometri per andare in una discoteca, perché non possono fare anche cinque chilometri per andare in una chiesa comune? Ma, ecco, questa è un cosa molto concreta, pratica, e non oso dare delle ricette. Ma si deve cercare di dare al popolo un sentimento: ho bisogno di essere insieme con la Chiesa, di essere insieme con la Chiesa viva e col Signore!”.

    * * *

    Terminato il discorso, Benedetto XVI ha risposto alle domande dei sacerdoti presenti. Qui di seguito ecco alcuni passi delle sue risposte.

    Sulla scuola cattolica e il catechismo:

    “Ciò che mi sembra importante è l'insieme di una formazione intellettuale, che faccia capire bene anche come oggi il cristianesimo non sia separato dalla realtà. Sulla scia dell'illuminismo e del ‘secondo illuminismo’ del '68 molti hanno pensato che il tempo storico della Chiesa e della fede fosse finito e che si fosse entrati in una nuova era, dove queste cose si sarebbero potute studiare come la mitologia classica. Al contrario occorre far capire che la fede è di un'attualità permanente e di una grande ragionevolezza. Quindi un'affermazione intellettuale nella quale si comprende anche la bellezza e la struttura organica della fede.

    “Questa era una delle intenzioni fondamentali del Catechismo della Chiesa Cattolica, adesso condensato nel Compendio. Non dobbiamo pensare ad un pacchetto di regole che ci carichiamo sulle spalle come uno zaino pesante nel cammino della vita. [...] Bisogna far capire che in realtà il cristianesimo è molto semplice e di conseguenza molto ricco. [...] Occorre capire che la fede essenzialmente crea assemblea, unisce.

    “È proprio questa essenza della fede che ci libera dall'isolamento dell'io e ci unisce in una grande comunità, una comunità molto completa – in parrocchia, nell'assemblea domenicale – ed universale nella quale io divento un parente di tutti nel mondo. Bisogna capire questa dimensione cattolica della comunità che si riunisce ogni domenica nella parrocchia. Quindi se, da una parte, conoscere la fede è uno scopo, dall'altra parte socializzare nella Chiesa o ‘ecclesializzare’ significa introdursi nella grande comunità della Chiesa, luogo di vita, dove so che anche nei grandi momenti della mia vita – soprattutto nella sofferenza e nella morte – non sono solo”.

    Sulla comunione ai fedeli divorziati e risposati:

    “Nessuno di noi ha una ricetta fatta, anche perché le situazioni sono sempre diverse. Direi particolarmente dolorosa è la situazione di quanti si erano sposati in chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato prefetto della congregazione per la dottrina della fede ho invitato diverse conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito. Ma data la situazione di sofferenza di queste persone, è da approfondire”.

    Sul divorzio ammesso nelle Chiese ortodosse:

    “Conosciamo il problema [...] delle Chiese ortodosse che vengono spesso presentate come modello in cui si ha la possibilità di risposarsi. Ma solo il primo matrimonio è sacramentale: anche loro riconoscono che gli altri non sono sacramento, sono matrimoni in modo ridotto, ridimensionato, in una situazione penitenziale. In un certo senso possono andare alla comunione ma sapendo che questo è concesso ‘in economia’ – come dicono – per una misericordia che tuttavia non toglie il fatto che il loro matrimonio non è un sacramento. L'altro punto nelle Chiese orientali è che per questi matrimoni hanno concesso possibilità di divorzio con grande leggerezza e che quindi il principio della indissolubilità, vera sacramentalità del matrimonio, è gravemente ferito”.

    E ancora sul Compendio del Catechismo:

    “Il Santo Padre Giovanni Paolo II ha incaricato una commissione di fare questo Compendio, cioè una sintesi del Catechismo grande, al quale esso si riferisse, estraendone l'essenziale. Inizialmente nella redazione del Compendio volevamo essere ancora più brevi, ma alla fine abbiamo capito che per dire realmente, nell'ora nostra, l'essenziale, il materiale necessario che serviva ad ogni catechista era quanto abbiamo detto. Abbiamo anche aggiunto delle preghiere. E penso che sia un libro realmente molto utile, dove si ha la ‘summa’di quanto è contenuto nel grande Catechismo e in questo senso mi sembra possa corrispondere oggi al Catechismo di Pio X”.
  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 4.955
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Master
    00 08/12/2005 11:51
    Il Concilio finalmente spiegato da Benedetto XVI




    L'attesissima omelia di Benedetto XVI nel quarantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II - 8 dicembre, festa dell'Immacolata - ha fornito di quell'evento una chiave interpretativa tutta centrata su Maria.

    Il papa ha così esordito:

    "Una cornice mariana circonda il Concilio. In realtà, è molto di più di una cornice: è un orientamento dell'intero suo cammino, [...] la chiave per la sua comprensione".

    E poco più avanti:

    "[Maria] illumina la struttura interiore dell'insegnamento sulla Chiesa sviluppato nel Concilio. Il Vaticano II doveva esprimersi sulle componenti istituzionali della Chiesa: sui Vescovi e sul Pontefice, sui sacerdoti, i laici e i religiosi nella loro comunione e nelle loro relazioni; doveva descrivere la Chiesa in cammino, 'che comprende nel suo seno peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazioneÉ' (Lumen gentium, 8). Ma questo aspetto 'petrino' della Chiesa è incluso in quello 'mariano'. In Maria, l'Immacolata, incontriamo l'essenza della Chiesa in modo non deformato".

    Detto questo, Benedetto XVI non ha più fatto parola del Concilio e ha dedicato la gran parte della sua omelia a illustrare, appunto, la sua chiave esplicativa: il "segno" di Maria per la Chiesa e per il mondo. L'ha fatto con una profondità e ricchezza che si ritrovano nelle pagine più alte dei Padri della Chiesa.
  • ratzi.lella
    00 08/12/2005 13:33
    l'omelia di stamattima è stata meravigliosa
    mi ha tenuta incollata davanti alla tv!
    papa ratzi ha spiegato con chiarezza e semplicità concetti difficilissimi ed affascinanti

  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 5.579
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Master
    00 30/12/2005 20:08
    Una critica di Magister sul servizio internet vaticano
    Quelli che in Vaticano remano contro l'attuale papa

    Pochi luoghi al mondo sono internazionali e cosmopoliti come il Vaticano.

    La sua lingua ufficiale continua a essere il latino. Ma di fatto la lingua franca è l'italiano. Più le altre lingue moderne in cui sono abitualmente tradotti i suoi testi perché diventino oggetto di lettura in tutto il mondo: l'inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese e talvolta il tedesco.

    Con Benedetto XVI, però, la squadra dei traduttori batte un'incredibile fiacca.

    Nel sito web vaticano che raccoglie i discorsi, le omelie, i messaggi, le lettere, eccetera dell'attuale papa, le traduzioni compaiono con molti, troppi giorni di ritardo. E spesso non arrivano del tutto.

    Passi per qualche testo minore. Ma quando il testo è di capitale importanza come il discorso rivolto dal papa il 22 dicembre alla curia vaticana, non c'è giustificazione che tenga.

    Per giorni e giorni l'unica versione di questo discorso disponibile sul sito del Vaticano è stata l'italiana.

    E ancora otto giorni dopo, vigilia di San Silvestro, la situazione non era molto migliorata. Due sole versioni: l'italiana e la francese.

    Eppure non ci si aspetta l'impossibile. Il giorno stesso in cui il papa lesse il suo discorso alla curia, il 22 dicembre, l'agenzia "Asia News" diretta da padre Bernardo Cervellera mise all'opera i suoi traduttori ed entro sera la versione integrale in inglese era leggibile in rete in tutto il mondo.

    Mancano al Vaticano i soldi per pagare i traduttori? Neanche per sogno. Il Vaticano abbonda di enti inutili, o comunque con personale inutilmente in sovrannumero. Ad esempio il pontificio consiglio delle comunicazioni sociali.

    Perché non riconvertirli a lavori socialmente più utili e comunicativi?

  • OFFLINE
    Daishin
    Post: 1
    Registrato il: 27/01/2006
    Utente Junior
    00 27/01/2006 08:12
    Cerco .samantha.
    Ciao Samantha, mi chiamo Alfredo e probabilmente non ti ricorderai di me, se sei la S. Pellegrini nata a Roma a Gennaio di 25 anni fà, mi piacerebbe avere tue notizie per raccontarti un simpatico fatto di quando eravamo piccoli; ti prego di metterti in contatto con me: huineng@libero.it
    Mi scuso con l'amministratore del bel forum per questa intromissione.

    Alfredo
  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 6.355
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Master
    00 06/02/2006 17:44
    Una visione che giudicherei obiettiva sulla telenovela Bergoglio


    Venerdì 3 febbraio il "Corriere della Sera" ha sparato su cinque colonne, in una pagina tutta dedicata al Vaticano, il seguente titolo:

    "Bergoglio critica le nomine di Ratzinger".

    Occhiello: "Il cardinale di Buenos Aires, il secondo più votato nell'ultimo conclave, è a Roma. Forse incontrerà il pontefice".

    Sommario: "La stampa argentina: assegnate le sedi a due arcivescovi non graditi all'episcopato".

    Nell'articolo sottostante, l'unica notizia certa riguardante il cardinale Jorge Mario Bergoglio era che egli si trovava a Roma per una riunione del consiglio della segreteria del sinodo dei vescovi, di cui fa parte.

    Ma questo è bastato perché il "Corriere" montasse una nuova puntata della telenovela che da quasi dieci mesi ha per protagonista il cardinale argentino.

    I dieci mesi sono quelli trascorsi dal conclave che ha eletto Benedetto XVI. In quel conclave, recita il copione, Bergoglio è stato l'antagonista di Joseph Ratzinger.

    E deve continuare ad esserlo. Dato che la stampa argentina ha dato voce a delle proteste per due nomine di vescovi giudicati "conservatori", ecco assegnata a Bergoglio la missione di portare la protesta al papa.

    Il copione traballa da tutte le parti. Ma il "Corriere" non fa una piega e lo dà per vero. Benedetto XVI è il mastino che ha voluto quelle nomine a dispetto delle diverse indicazioni della conferenza episcopale e del nunzio. Mentre Bergoglio è il solito incapace: sconfitto in conclave perché timido e rinunciatario nonostante i 40 voti datigli dai "progressisti"; perdente anche qui per la sua tardiva e flebile lamentela.

    Sull'implausibilità della ricostruzione del conclave con Bergoglio antagonista di Ratzinger, vedi in www.chiesa: "Trame vaticane. Chi resiste a Benedetto XVI" e "Codici vaticani. Il mio conclave lo riscrivo così".
  • OFFLINE
    Paparatzifan
    Post: 1.910
    Registrato il: 17/06/2005
    Utente Veteran
    00 06/02/2006 22:27
    Basta...
    ... con queste chiacchiere!!!!!
    L'EPISCOPATO ARGENTINO NON RIPUDIA LE NOMINE DEL PAPA!!!!
    SE NON AVETE QUALCOSA PIU INTERESSANTE DA SCRIVERE, CHIUDETE IL BECCO!!!

    [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826]
    Papa Ratzi Superstar









    "CON IL CUORE SPEZZATO... SEMPRE CON TE!"
  • OFFLINE
    Ratzigirl
    Post: 6.426
    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Master
    00 09/02/2006 19:28
    Sandro magister riflette sull'Iraq moderato
    L'islam "moderato" eccolo lì. E' in Iraq
    Le cronache delle aggressioni violente contro occidentali e cristiani che hanno preso spunto dalle vignette satiriche anti-Maometto pubblicate in Danimarca hanno trascurato un pronunciamento di grande importanza, quello dell'ayatollah Ali Al-Sistani.



    Al-Sistani è il leader più autorevole e rispettato dei musulmani sciiti iracheni. S'è sempre schierato contro la teocrazia di modello iraniano khomeinista e a favore di un nuovo sistema politico in Iraq che concilii islam e democrazia.
    Ebbene, a proposito delle violenze in atto, Al-Sistani ha definito "horrific action" la pubblicazione delle vignette, ma ha concentrato la sua condanna soprattutto contro quei musulmani "sviati e oppressivi" che "hanno sfruttato tale atto per spargere il loro veleno e ravvivare i loro vecchi odi con nuovi metodi". Col risultato di proiettare con la loro violenza "un'immagine buia e distorta della fede di giustizia, amore e fratellanza".

    Al-Sistani è del tutto consapevole che la violenza organizzata in vari paesi musulmani prendendo come spunto le vignette ha la stessa radice di quella dei terroristi che si scatenano contro la nascente democrazia in Iraq. Riconosce in essi i veri nemici: sia delle libertà civili, sia dell'islam in cui crede.

    L'islam "moderato" di cui spesso si parla senza sapere dov'è o individuandolo nelle persone sbagliate ha nell'ayatollah Al-Sistani una delle sue figure di spicco. Sono questi i musulmani che devono essere capiti, sostenuti, difesi. L'Iraq è uno straordinario terreno di prova per un rapporto costruttivo tra cristianesimo e islam.
  • ratzi.lella
    00 22/02/2006 08:48
    sandro magister sui catecumenali
    Contrordine. I neocatecumenali obbediscono al papa

    Dopo il severo richiamo rivolto loro da Benedetto XVI il 12 gennaio, i neocatecumenali hanno deciso di non opporre più resistenza frontale agli ordini ricevuti in dicembre dal cardinale Francis Arinze a nome del papa, riguardanti il loro modo di celebrare la messa.

    In un primo tempo, i loro capi Kiko Arguello e Carmen Hernandez avevano cercato di diffondere l'idea che la lettera di Arinze e un precedente incontro da loro avuto con Benedetto XVI erano stati un'approvazione della loro prassi.

    Ora però, la consegna data da Kiko è di ubbidire. Nelle comunità neocatecumenali di tutto il mondo se ne notano qua e là i primi segni. Nella messa recitano il Credo e riducono il numero di commenti alle letture. La comunione la fanno non seduti ma in piedi: sempre però col pane confezionato come una grossa pagnotta, da mangiare in porzioni abbondanti.

    Intanto, la lettera di Arinze e il discorso del papa del 12 gennaio sono pparsi sull'ultimo numero di "Notitiae", la rivista ufficiale della congregazione vaticana per la liturgia.

    E il cardinale Arinze è tornato a ribadire punto per punto gli ordini suoi e del papa in un'intervista alla Radio Vaticana del 15 febbraio.

    Interessante quello che Arinze ha detto sulla genesi della lettera:

    "La lettera è scaturita da ciò che emergeva dall'esame di questa congregazione di come il Cammino Neocatecumenale celebra la santa messa da molti anni, perché dopo l'approvazione dei loro statuti per un periodo di cinque anni da parte del pontificio consiglio per i laici, rimanevano per gli altri dicasteri le approvazioni di loro competenza: per la nostra congregazione, il campo della liturgia. Per l'esame di questo abbiamo avuto una commissione mista tra persone nominate dal Cammino Neocatecumenale e persone nominate dalla nostra congregazione. Nelle discussioni sono emerse tante pratiche che loro fanno durante la messa, le quali sono state esaminate e molte di loro emergevano che non erano secondo i libri approvati. Questo è il background. Il tutto è stato esaminato in molte sessioni dalla commissione mista per un periodo di due anni o più. E c'è stata anche una discussione tra sette cardinali della curia romana per volere del Santo Padre, i quali hanno esaminato il tutto. Dunque, questa lettera è la conclusione di tutto".
1